Perchè Roghudi

Perché Roghudi

di

Daniela Strippoli

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     All’ interno delle abitazioni, il senso dell’abbandono
                        foto © Daniela Strippoli

Arrivai a Roghudi qualche anno fa!

Da calabrese non ne conoscevo l’esistenza perché in Calabria tante cose non si sanno se non ci si addentra e non ci immerge con caparbia volontà facendo e documentandosi da soli. La Calabria è tanto grande che, a parer mio, non basta il tempo per poterla scoprire davvero tutta. L’area grecanica è una realtà affascinante solo al pensiero che li si continui a parlare il greco e ci si saluti come in Grecia. L’Aspromonte con le sue vallate meravigliose, con le caprette che si affacciano a guardare mentre si passa da ogni sentiero, il sapore dei formaggi, quello della ricotta calda calda servita dal pastore che si incontra lungo la via, il colore dei suoi fiori tra i più belli della macchia mediterranea, la varietà dei suoi boschi in cui si alternano l’ontano, l’acero e il frassino, e più in collina quelli della campagna ricchissima di mandorli, limoni, bergamotti, ciliegi, uniti al cordiale, timido e sincero calore della sua gente mi sono entrati dritti nel cuore da non riuscire a fare meno di condividerlo. Dopo due giorni di bello vissuto dentro di me non ne ho più potuto fare a meno e capisco il motivo per cui tanta gente che durante l’anno vive all’estero, si traferisca puntualmente in questo particolare fazzoletto di terra, sulla costa ionica, per trascorrere i mesi estivi che, in queste zone, proseguono anche nei mesi autunnali.

Roghudi è però il luogo che più di tutti mi è entrato nel cuore. Sarà perché dimostra chiaramente l’abbandono con le case ormai cadenti sulla sottostante fiumara, sarà perché è rimasto isolato tra i crinali aspromontani che lo circondano, sarà perché non si può raggiungere facilmente, ma è un luogo che può suscitare malinconia e angoscia ma, nello stesso tempo sprigiona una certa energia. A me ha dato come l’impressione che non volesse ancora del tutto scomparire perché attende un riscatto che la Regione intera gli deve solo per essere esistito fino a quando non ha più potuto; fino all’alluvione del 1971.

 

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                    Roghudi visto dalla fiumara dell’Amendolea
                                    foto © Daniela Strippoli

La sua particolare posizione geografica è già di per se un enigma. Sorge su una sorta di promontorio che, come una “proboscide di terra”, così mi piace definirlo, scende vertiginosamente a picco sull’enorme fiumara dell’Amendolea nel punto in cui questa incontra un suo affluente, il Furria, fungendo così anche da spartiacque tra i due corsi fluviali.  Lungo il letto della Fiumara che sfocia a Condofuri marina,  si incontrano bellissimi agrumeti che appaiono come veri e propri salotti naturali, ordinati giardini di bergamotti, mandorli e aranci, querce secolari, ontani. Ci sono stata quattro volte se non  di più ed ogni volta l’emozione è stata forte perché scoprivo qualcosa di nuovo come se da quelle finestre dai battenti cigolanti, udissi una voce narrante.

Un tempo non c’erano mezzi di trasporto a motore e non esistevano carreggiate stradali. Queste erano solo piccole mulattiere che potevano essere percorse a piedi o con l’asino che di sicuro costituiva una buona leva da carico per chi dalla fiumara doveva trasportare fieno, viveri o altro. Gli abitanti di Roghudi erano per lo più pastori e contadini che di sicuro conoscevano molto bene la scuola della vita. A testimonianza della loro attività agricola e pastorale sono tutt’oggi i piccoli vani inferiori delle abitazioni adibiti a stalla.

Oggi c’è ancora la paglia per terra, i bauli a metà tra piano superiore e piano inferiore delle case, le porte che cigolano, gli abiti appesi ai fili tra un muro e l’altro, le umili e striminzite giacche dei pastori, i lavatoi incastrati nelle pareti, i forni anneriti per cuocere il pane nelle case. Tutto è coperto da decennali, per non dire secolari, ragnatele simili a lenzuola bianche che rendono il paesaggio spettrale ma nello stesso tempo affascinante perchè è davvero incredibile oggi, nell’era del progresso tecnologico, poter anche solo pensare come in quel luogo si potesse vivere.

 

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                    Un tratto della fiumara dell’Amendolea
                              foto © Daniela Strippoli

Ma se da li ci si affacciasse come piace fare a me, e ci si lasciasse baciare dal vento chiudendo gli occhi, si sentirebbe  il rumore assordante della fiumara dell’ Amendolea che al tempo della sua navigazione scorreva violenta ai piedi di quel paesino,  e si potrebbe per un po’ vedere la vita davvero sacrificata degli abitanti di quei luoghi. Le donne scendevano al fiume per lavare i panni e lavorare la ginestra che a quei tempi costituiva la vera e più importante risorsa di quei luoghi.  I sentieri erano tracciati ogni anno dai contadini e le donne percorrevano quelli lungo la fiumara con i cesti sulla testa carichi del prezioso fiore. Attraversavano il letto del fiume su ponti di legno e, ahimè, spesso cadevano nel sottostante fiume  e tutto il lavoro laboriosissimo della ginestra doveva essere rifatto. Si sa infatti che  la ginestra andava lavata ed asciugata per altre otto volte.

Per la memoria di tutto ciò credo sia bello immergersi anche solo una volta nella storia più affascinante che la Calabria ci lascia in eredità. Una storia di vita vera che non ha mai avuto voce e di cui mai si è sentito parlare perché il solo nominare la parola Aspromonte ha riscosso e tutt’ora riscuote tanta paura, ed è questo sentimento comune che non consente a questa bellissima terra di emergere per il bello che è e che può offrire.

 

L’escursione è di tipo T ” turistica”

Abbigliamento consigliato:

Scarpe da trekking,

cappellino, K-way,

crema solare

Acqua che sarà assente per tutto il percorso.

 

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